Legittimo il ricorso del genitore alla forza per tenere a freno il figlio preadolescente

Caduta l’accusa nei confronti di un uomo, finito sotto processo per violenza privata a seguito dell’azione compiuta per costringere la figlia ad uscire dalla cameretta, azione consistita nel battere più volte con forza sulla porta

Legittimo il ricorso del genitore alla forza per tenere a freno il figlio preadolescente

Legittimo nell’ottica educativa che il genitore faccia ricorso alla forza, seppur in maniera minima, per tenere a freno il figlio preadolescente. Proprio applicando questo principio, i magistrati (sentenza numero 7330 del 21 febbraio 2025 della Cassazione) hanno fatto cadere le accuse nei confronti di un papà, finito sotto processo per violenza privata a seguito dell’azione compiuta per costringere la figlia – 12enne, all’epoca – ad uscire dalla cameretta, azione consistita nel battere più volte con forza sulla porta.
Lo specifico caso si colloca, secondo i giudici, nel contesto di una non patologica condizione di tensione, nei rapporti fra un padre e una figlia preadolescente, che non attinge i livelli di offensività necessari affinché la vicenda possa acquisire rilevanza penalistica.
Scenario dell’episodio è una casa nella provincia lombarda. Il fatto che conduce poi allo strascico giudiziario è l’apice dell’ennesimo scontro tra una figlia preadolescente – 12 anni, all’epoca – e un padre severo. Quest’ultimo proibisce alla ragazzina di utilizzare ‘Instagram’. Quasi scontata la reazione della ragazzina, la quale, arrabbiata col padre, si rinchiude nella propria camera. Meno scontato, invece, ciò che succede pochi attimi dopo: il genitore ordina alla figlia di uscire dalla cameretta, e la ragazzina risponde con una parola inequivocabile: “vaffanculo”.
A fronte di questo epiteto, l’uomo perde la tramontana e comincia a battere forte sulla porta della camera della figlia, rivoltasi a lui in modo inaccettabile, per farla uscire e, si presume, per avere un confronto diretto.

Per spazzare via ogni dubbio, comunque, i magistrati, ampliando l’orizzonte, ribadiscono che per la concretizzazione del delitto di violenza privata è necessario che la violenza o la minaccia costitutive della fattispecie incriminatrice comportino la perdita o, comunque, la significativa riduzione della libertà di movimento o della capacità di autodeterminazione della vittima, mentre, invece, sono penalmente irrilevanti, in virtù del principio di offensività, i comportamenti che, si rivelino inidonei a limitarne la libertà di movimento, o, comunque, a influenzarne significativamente il processo di formazione della volontà.
Applicando questa prospettiva alla vicenda in esame, bisogna tener presente, annotano i giudici, che si è del tutto escluso che l’uomo abbia rivolto una violenza fisica contro la figlia o anche soltanto verso la porta – non risultata né rotta né soltanto deteriorata –, mentre la ragazzina perseverò nella volontà di non aprire la porta e si risolse a uscire dalla stanza non per un timore per la propria persona ma per placare il genitore. Inoltre, non è emersa, in realtà, neanche la formulazione di una compiuta minaccia del genitore ai danni della figlia, sicché alla condotta dell’uomo deve attribuirsi, spiegano i magistrati, il significato di una intimazione, frutto della esasperazione, e non di una intimidazione funzionale alla minaccia, sicché non può ravvisarsi una significativa compressione della libertà della ragazzina.
Ragionando poi sulla società odierna, la precoce emancipazione del minorenne, frutto del costume sociale, non elide, anzi rende più complesso, l’obbligo dei genitori di impartire ai figli una educazione adeguata al loro carattere e alle loro attitudini, con una costante opera educativa, finalizzata a correggere comportamenti non corretti, non soltanto in relazione a eventuali responsabilità verso terzi, ma per realizzare comunque una personalità equilibrata, consapevole della relazionalità della propria esistenza, spiegano i giudici, i quali aggiungono che l’opera educativa richiede, per sua natura, quando necessario, il ricorso – riconosciuto come lecito – a mezzi di correzione e di disciplina. In questa ottica, quindi, la semplice percossa, nei termini di una vis modica, è un mezzo lecito di esercizio dello jus corrigendi.

News più recenti

Mostra di più...